PIETRO VALDONI
Ann.Ital.Chir 1991;Vol. 62/4 – pag. 403-406
Ricordo di Antonio Lanzara
II mio incontro con Pietro Valdoni avvenne in un mattino di maggio del 1934. Si era al termine delle lezioni del terzo anno, che frequentavo presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Roma, avevo ormai compiuto i vent’anni, e dopo essere stato per un anno allievo interno in Anatomia umana a Milano, col prof. Livini, e poi per due in Anatomia comparata a Roma, nell’Istituto diretto dal prof. Cotronei, pensavo che ormai fosse l’ora di bussare alla porta della grande chirurgia, cui fin dall’adolescenza avevo deciso di dedicarmi. Così quel giorno mi presentai a Roberto Alessandri, Direttore della Clinica chirurgica generale dell’Università di Roma, con il certificato dei voti ottenuti agli esami e le attestazioni degli internati. Alessandri, letto il mio curriculum, concluse che potevo iniziare subito a frequentare la Clinica e che intendeva affidarmi al suo aiuto Valdoni, come infatti subito fece.
Appurato che io avevo una buona esperienza di tecniche istologiche, apprese presso il prof. Cotronei, Valdoni mi mise ben presto al lavoro per la tesi di laurea sul problema della diffusione locale del cancro del retto, che a quel tempo rappresentava ancora una delle grosse incognite nel trattamento di tale malattia, che veniva largamente attuato dall’Alessandri e da Valdoni stesso. Ho vissuto allora accanto a Valdoni pressoché quotidianamente; eccettuate le ore di lezioni indispensabili, seguivo il lavoro della Clinica nella sala operatoria e nel Reparto a Lui assegnato, ove lo affiancava come Assistente Paride Stelanini; seguivo le Sue legioni e dimostrazioni agli specializzandi, fra cui quelle di istologia patologica sul ricco materiale di provenienza operatoria, che Egli svolgeva con grande competenza e cura. Nel pomeriggio, prima della visita della sera, lavoravo personalmente per la tesi nel laboratorio istologico e frequentavo la ricca biblioteca della Clinica.
Laureato il 7 luglio 1937 e nominato da Alessandri assistente volontario, fui destinato a mansioni di assistente effettivo, che mantenni fino al dicembre 1938, quando — succeduto Raffaele Paolucci ad Alessandri — Valdoni fu chiamato a Cagliari come professore incaricato di Clinica chirurgica.
Quei quattro anni e mezzo vissuti accanto a Lui, che svolgeva la Sua attività di docente e di chirurgo in un periodo ancora formativo della Sua carriera, l’eco ancora viva di quanto Egli aveva fatto nella Clinica negli anni precedenti, fin dal 1925, di cui si parlava non solo a livello di medici, ma anche del personale più semplice, più umile, che lo stimava e lo amava, mi hanno consentito di conoscer Lo sotto vari aspetti: accanto alla grande cultura ed alle capacità tecniche, l’adempimento dei pRopri doveri, l’amore per la Sua arte, ma anche per i Suoi pazienti, il rispetto della vita e della sofferenza, la lotta contro la malattia condotta con ogni mezzo, a costo di qualsiasi sacrificio, facevano di Lui un personaggio straordinario, cui la natura aveva attribuito anche un eccellente «physique du rôle».
Egli aveva fatto Sua, come pochi, quella che allora era la divisa della Clinica medica di Cesare Frugoni, che molto Lo stimava: «Qui vige il culto della Scienza, ma soprattutto quello del malato». Ed io, forse per una ammirazione che sentivo ricambiata da Lui con l’interessamento per i miei studi, per i miei successi scolastici, e con i consigli che mi dava nei momenti liberi, in cui veniva nel laboratorio di istologia, mi sentivo profondamente legato a Lui. Fra l’altro mi fece svolgere, ancora studente, sentito il prof. Alessandri, una comunicazione alla Società italiana di Biologia sperimentale sull’argomento stesso su cui lavoravo per la tesi, sotto l’etichetta della Clinica.
Ho sempre pensato, in seguito, di aver avuto in quegli anni un rapporto con Lui certamente diverso da quello che avrei potuto avere se Lo avessi incontrato già cattedratico di ruolo, a Modena nel 1940 o poco più tardi a Firenze. A questo antico rapporto, che mi ha legato alla storia della Sua carriera, mi sono richiamato col pensiero più tardi, in occasione di avvenimenti in cui le Sue decisioni hanno determinato il mio destino. Un particolare, che mi strinse a Lui fin dall’inizio, riguardava la scelta della professione chirurgica. Come ha ricordato Paolo Biocca quel 17 dicembre 1976, in cui all’Accademia medica di Roma Lo abbiamo commemorato, noi Suoi allievi, a pochi giorni dalla Sua morte, è un fatto noto e confermato che i chirurghi sono una delle categorie maggiormente predeterminate, nel senso che fanno la loro scelta di vita molto precocemente, sotto una spinta istintiva più forte dello stesso raziocinio. Così la decisione di Valdoni era nata fin dalla Sua adolescenza, come Egli stesso ci ha raccontato, sotto la spinta di una dolorosa vicenda morbosa familiare. Ed a conferma dei ben diversi interessi, cui Valdoni ha rinunciato per il richiamo di questa missione, posso affermare che Egli copriva questa antica rinuncia fingendo di considerare effimere le lettere e le arti, come alcuni hanno creduto, mentre aveva interessi particolari per l’arte, la pittura in particolare, nonché per la storia dei popoli e delle civiltà, cui doveva ritornare nell’ultimo tempo della Sua vita quando a me, che andavo a trovarlo nella Casa di salute dove era ricoverato, chiedeva notizie sulle più recenti pubblicazioni in argomento, scusandosi col dire «È tipico dell’età anziana tornare alla storia» quasi a giustificare qualche distrazione dalle letture chirurgiche.
Analoga è stata nella mia vita la scelta della chirurgia, fatta quando, tredicenne, vidi mia madre giovanissima soffrire per una minacciosa vicenda morbosa ed essere salvata da un intervento rischioso che la restituì a noi. Decisi allora di seguire quella professione e quella scelta mantenni, rinunciando al richiamo affascinante delle lettere e dell’oratoria, per scendere, come avrei scritto molto più tardi «alle nude sale anatomiche, dove i morti insegnano ai vivi, ma anche per accedere ai sacrari operatori, dove la mente e la mano soccorrono alla vita», nella ricerca del modo più dignitoso di spendere la propria vita.
Ma molto altro ancora mi ha legato a Lui. Avendo dovuto lasciar Lo quando si recò a Cagliari, avendo io già vinto alcuni Concorsi ad assistente, universitario ed ospedaliere, la sorte volle riportarmi a Lui. Alla fine di novembre 1943, evaso dalla prigionia di guerra tedesca in Balcania, impossibilitato a rientrare a Napoli dove ero assistente ordinario in Patologia chirurgica, Egli mi protesse accogliendomi nel Suo Istituto di Firenze. Liberata Firenze nell’agosto 1944, Gli chiesi di restare con Lui; mi disse «Molti sono già qui che aspirano alla carriera, ma non vi sono precedenze stabilite; chiunque viene con me, porta nello zaino il bastone di maresciallo». Queste famose parole di Napoleone ai suoi soldati, Valdoni le ripeteva allora volentieri. Rimasi, fino a che, dopo essere passati a Roma nel 1946, fui ternato nel Concorso a cattedra del 1952: il bastone di maresciallo portava il primo orifiamma della Scuola di Pietro Valdoni.
Memore di un tempo lontano mai dimenticato, nel commemorarLo l’il febbraio 1977 all’Accademia di Scienze mediche e chirurgiche della Società Nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, ho detto quello che qui ripeto accogliendo il gentile invito del prof. Nicola Picardi, Direttore di questa Rivista: «Altri ha celebrato o celebrerà tutto quello che di grande Pietro Valdoni ha fatto nella chirurgia tecnica e nel pensiero scientifico medico-chirurgico. A me piace celebrare oggi qui non il successo, che è sempre somma del merito e della fortuna, ma la preparazione, la lotta dell’uomo per essere pronto nell’ora in cui si dovrà partire per l’azione ed il successo; desidero cioè celebrare qui dinanzi a Voi il merito di Pietro Valdoni nella formazione di se stesso, nella lunga attesa del successo, venga poi questo o non a coronarla». In questo io ho visto la vera essenza dell’uomo Valdoni, il capitolo più superbo della Sua straordinaria vicenda. Come Egli stesso diceva a noi, nella vita la Fortuna può passarci accanto in qualsiasi momento: l’importante è di ben prepararsi, di essere pronti ad esserne afferrati. Con altrettanta sicurezza ci insegnava che non esistono naufragi di uomini che valgano.
Nato a Trieste nel 1900, dopo aver studiato Medicina a Vienna e a Bologna, si laureava a Roma nel 1924 con una tesi di clinica ortopedica. Subito assistente in tale specialità, passava nel 1925 come assistente in Clinica chirurgica a Roma. Ben presto acquisì grande fama in quell’ambiente, dovuta in larga parte alle Sue eccezionali doti tecniche. Accanto allo sviluppo dei metodi di resezione gastroduodenale, fra cui quello personale ancor oggi praticato dai Suoi allievi per l’eccezionaiità dei risultati, Egli aveva già realizzato intorno agli anni trenta una tecnica perfetta di coledoco-duodenostomia ed aveva applicato al cancro del retto e del sigma il trattamento secondo Miles. Come sempre poi, già allora si trovava all’avanguardia nell’esecuzione di nuove tecniche come nell’adozione di nuove idee. Ma non ha mai cercato di legare il Suo nome a determinati interventi o tecniche, con la superiorità che Lo distingueva e la saggezza di colui che sa che ogni realtà è caduca. Diceva sempre «Molti sono i modi di praticare un intervento, ma uno solo è il migliore». Questa ricerca della Perfezione , che è stata aspirazione di tutta la Sua vita, era tuttavia temperata dall’altra Sua convinzione, che tante volte ha ripetuto agli allievi «Talvolta il meglio è nemico del bene». La soluzione di questo contrasto fra la spinta ad osare e la critica, che frena, è stata certamente la Sua maggiore grandezza nell’ambito della indicazione chirurgica come in quello dell’esecuzione tecnica. Grande nobiltà d’animo era nel tormento che Lo induceva sempre a domandarsi quale fosse il confine tra la possibilità di successo ed il rischio fatale nei singoli casi clinici, di fronte alle diverse malattie. Ho avvertito questa Sua estrema sensibilità ancora il giorno in cui, a Napoli nel 1974, in una riunione scientifica con noi Suoi allievi, sul trattamento del cancro del retto ci domandava una risposta per un interrogativo, che ancora evidentemente Lo angosciava, e cioè se quello che aveva fatto, lungo tutta la Sua vita di chirurgo, in proposito fosse stato o non il meglio per i pazienti. Ma era altrettanto deciso a fare tutto il possibile, a non abbandonare mai una speranza per tenue che potesse apparire, cercandone il limite sopra coscienza. Questa era la grandezza di Valdoni accanto a quella abilità tecnica straordinaria, che Gli era congeniale. Un altro aspetto fondamentale della Sua etica riguardava la formazione del chirurgo. Nel discorso inaugurale del Congresso della Società italiana di Chirurgia del 1965, a Palermo, disse: «Chirurghi si nasce, ma lo si deve diventare». Pur non negando che in assenza di certe doti naturali non si può essere buoni chirurghi, escludeva che fossero sufficienti tali qualità per esercitare la professione in mancanza di una solida preparazione in un qualificato ambiente chirurgico. E diceva nello stesso Congresso: «Se l’organizzazione di una società moderna richiede ad un uomo in ogni campo della sua attività di raggiungere la maturità e la piena produttività in tempo più breve per conseguire più rapidamente l’autosufficienza tecnica, non vi è altra scelta… della limitazione della sfera di competenza individuale. Vi sarà sempre chi dotato di mente più acuta, di visione più alta, di coraggio e di iniziativa pionieristica allargherà i suoi confini cercando di evadere dall’angusto vicolo in strade più ampie». Vi si sente la sofferta concessione ad esigenze, che non sono quelle della chirurgia.
Aveva detto un giorno, certamente angustiato da qualche critica non benevola, come spesso accade a chi sta sulla verta:«Nessuno può darmi ombra; solo i miei allievi potranno super armi», aggiungendo subito «Ma ci vorranno almeno dieci anni ancora». Quel giorno ricordai una Sua affermazione: «Guai a quel Maestro che non ha saputo creare allievi a lui superiori». E pensar! che Egli intendeva riferirsi ai progressi futuri, ai nuovi mezzi, di cui allora si sentiva la mancanza, che avrebbero permesso nuove conquiste a chi fosse stato ben preparato. Questo era il Suo orgoglio: di riuscire a formare dei veri chirurghi. Altra volta, allontanandosi da una sala operatoria, in cui si faceva qualcosa che non Gli piaceva, aveva detto a noi che lo seguivano: «rimanete: è utile vedere anche quello che non si deve fare». Ho già detto che non amava descrivere metodi personali; solo prima della fine preparò quel Suo magnifico Atlante di chirurgia addominale che riassumeva la Sua lunga esperienza in tale campo. Ma anche a noi, durante l’intervento, non spiegava mai quello che stava facendo, né una variazione di tecnica introdotta all’improvviso; pretendeva che chi l’aiutava comprendesse immediatamente, come gli allievi nelle botteghe dei grandi Maestri pittori del Rinascimento, solo guardando.
Dovrei a questo punto fare un cenno sui principali campi in cui si è svolta la Sua opera chirurgica. Ma è impresa molto difficile, perché non vi è stato campo della chirurgia in cui Egli non sia entrato, e sempre con grande abilità e successo. Ricorderò soltanto che è del 1935, quando era ancora aiuto a Roma, il caso di embolectomia della polmonare seguito da successo: il nono sopravvissuto in tutto il mondo a quell’epoca. In quel periodo praticava anche i primi tentativi di derivazione porto-cavale e gli interventi di chirurgia sul simpatico per arteriopatie e per l’ipertensione arteriosa. Del 1939 è il primo caso in Europa di legatura del dotto arterioso di Botallo, da Lui praticato. Del 1940 la Sua prima lobectomia polmonare. Nel 1948 presentò all’Accademia medica di Roma i Suoi primi casi operati per tetralogia, di Fallot; poi operò in ipotermia a cuore chiuso e successivamente aperto, e dal 1956 in circolazione extracorporea. Nel 1951 presentava al Congresso di Chirurgia toracica a Torino, la relazione, cui mi aveva chiamato a partecipare, «ligli interventi radicali praticati per cancro dell’esofago e del cardias. Degli anni cinquanta sono anche i grossi interventi per ipertensione portale e le procto-colectomie totali in un tempo, fra le prime al mondo dopo i casi di Ravitch (1948). Negli anni quaranta aveva largamente operato anche per tubercolosi polmonare, empiemi pleurici, tubercolosi vertebrale. Nel 1952 praticò il primo intervento europeo, secondo nel mondo, di trasposizione del midollo spinale per gibbo da morbo di Pott con gravi compromissioni neurologiche: caso che non volle pubblicare perché, essendosi dovuto allontanare per motivi urgenti, lasciò a me di procedere e di pubblicarlo a mio nome, il che non ho voluto fare. Dovrei ancora dire dei Suoi interventi di chirurgia endocrina, di neurochirurgia e di tutta quella chirurgia addominale: gastro-enterica, epatica, pancreatica, renale, in cui tante novità e perfezionamenti tecnici Egli ha apportato.
È più semplice dire che solo per la neurochirurgia ebbe a rinunciare ad un certo momento, affidandola a Piero Frugoni, poi cattedratico di Neurochirurgia a Padova.
Dal punto di vista organizzativo va citata soprattutto la Sua concezione della chirurgia come lavoro di équipe, ma non di soli chirurghi, bensì estesa a tutti gli apporti collaterali indispensabili all’autosufficienza, per cui fin dall’inizio volle intorno a sé, inseriti nella medesima struttura, anestesisti e rianimatori, radiologi, laboratoristi, e collegati ad essa internisti, cardiologi, neurologi ed altri specialisti, mentre a Luigi Tonelli, chirurgo generale come noi tutti, di cui faceva parte nella Scuola, rimaneva affidata Fisiopatologia come al tempo di Firenze.
Altro esempio interessante della Sua capacità organizzativa è rappresentato dall’abitudine di attribuire compiti specifici in determinati campi a singoli allievi, ovviamente in aggiunta a quelli di chirurgia generale; ciò comportava anche un impegno a seguire la letteratura internazionale corrispondente e a riferire sulle novità in riunioni di Scuola da Lui presiedute.
Almeno due altri aspetti della Sua personalità devono essere ricordati. Uno riguarda la Sua grande capacità diagnostica, fondata su una tecnica di indagine obiettiva sistematica e perfetta e su di una precisa valutazione del confronto tra esami collaterali e risultati dell’esame obiettivo stesso, ma anche su una accurata indagine anamnestica, da cui appariva chiara la Sua profonda conoscenza della patologia e della semeiogenesi. Ma ciò che più colpiva era la rapidità con la quale istradava sul giusto binario anche i casi più complessi in modo semplice ed apparentemente facile. Proprio così come facili potevano sembrare ad un osservatore non esperto i Suoi interventi, anche quelli più ardui e più pericolosi.
Un’altra qualità ancora merita particolare ricordo: la Sua disponibilità ad ascoltare, e talvolta ad apprezzare quando ve ne fossero i fondamenti, opinioni diverse dalle Sue, così come a rinunciare ad una tecnica personale ove non apportatrice dei risultati sperati, che valutava con molta attenzione ed obiettività. Ricordo in proposito la Sua rinuncia alla tecnica da Lui ideata ed attuata di anastomosi fra porta e cava in senso terminale per la cava e laterale per la porta: rinuncia che Egli fece non appena accertata l’inferiorità dei risultati rispetto all’anastomosi latero-laterale. Ha detto un giorno Winston Churchill che le guerre sono i treni espressi (oggi si direbbe rapidi) della storia, e ciò vale anche per la chirurgia che ha conosciuto progressi dopo le guerre spesso, ma soprattutto dopo le ultime non solo mondiali, ma anche circoscritte come ad esempio quella di Corea. Le idee nuove promosse dall’ultima guerra mondiale hanno comportato nell’immediato dopoguerra un grande movimento non solo chirurgico, ma anche delle discipline connesse, così da segnare una vera rinascenza. A questo grande progresso chirurgico, il più grande che si sia verificato con tanta rapidità in tutta la storia della chirurgia moderna dopo i grandi rivolgimenti del secolo XIX legati all’introduzione dell’anestesia e della disinfezione, non poteva non partecipare in una posizione di vertice, riconosciuta Gli poi da tutto il mondo, uno spirito rinascimentale come quello che era facile vedere in Pietro Valdoni: lo spirito dell’uomo che, ricco di doti naturali, ha realizzato una solida formazione di sé stesso e della propria cultura, sulla cui base persegue una ricerca di nuovi canoni libera da preclusioni.
In questa coincidenza fra la Sua vita e quelle vicende esterne sta la Fortuna, di cui Egli parlava; ma il merito di aver saputo piegare gli eventi alla Sua volontà è solo Suo, delle Sue capacità, della Sua tenacia, ma anche di quel senso del dovere, di quella Sua sensibilità umana, che noi allievi abbiamo conosciuto.
Per quello che riguarda il rapporto umano di Lui con noi, mi piace ricordare una frase, che spesso Gli abbiamo sentito pronunciare: «Voi mi siete cari come i miei figli; io vivo più con voi che con essi». Ai Suoi pazienti, ai Suoi allievi, ai doveri di docente e di chirurgo, Egli ha dato certamente molto più tempo della Sua vita di quanto ne abbia dato alla sua famiglia.
Un discorso più preciso intendo aprire su quello che ogni tanto si sente definire, anche da qualche Suo allievo, come la «durezza» di Valdoni. Si tratta a mio parere di una grossolana confusione nel ritenere durezza d’animo ciò che era in Lui severità di pensiero, severità di costumi, senso del dovere, desiderio di educare i Suoi allievi, ma anche volontà di nascondere qualsiasi debolezza, qualsiasi cedimento sentimentale. Pretendeva anche dai Suoi allievi grande dignità: quella dignità che Egli seppe mantenere per tutta la vita, anche nell’ora della sofferenza estrema e della morte vissuta come l’ultimo dovere da compiere.
Diceva: «Quanto più un cavallo è di razza, tanto più è necessario che senta il morso». Gli sono grato, Gli siamo grati noi tutti Suoi allievi, per averci educato così e per l’esempio che ci ha dato.